lunedì 21 settembre 2009

Dolore e dottrina in filodiffusione

Stamattina mi trovavo in un supermercato di Anagni. Gira in filodiffusione una musica qualsiasi, potrebbe essere la stessa di quindici anni fa. L'atteggiamento con cui si sta in un supermercato non è mai diverso di giorno in giorno, quindi perché cambiare la musica?
Arrivato il mio turno per pagare alla cassa, si ferma la musica. Sono le 12. La responsabile annuncia al microfono che va osservato un minuto di silenzio. Rapidamente ricerco con la mente il fatto che merita la celebrazione nel dolore. E' vero, sei soldati italiani sono morti in Afghanistan. Il microfono si chiude, la commessa resta ferma in piedi, i clienti alla cassa immobili, immobili quelli fra gli scaffali, e quelli che entrano nel supermercato, prima sorpresi, poi entrano placidamente nell'ovatta immobile. Io guardo nel vuoto, oltre la vetrina. La prima immagine che si stende nella mia testa, arrivata chissà da dove, è quella delle condanne a morte a cui i cittadini sono invitati ad assistere in alcuni paesi del mondo. Penso all'Iran, allo stesso Afghanistan. Partite di calcio con intermezzo di lapidazione. Particolari macabri sospinti in occidente dal mito oppure reale costrizione a prendere parte a un fatto collettivo?
Ogni secondo mi sembra interminabile e resto frastornato. Non vorrei essere lì. Non provo empatia per quel momento. Esiste un confine fra l'indifferenza per la morte di sconosciuti e il rallegrarsi perché alcuni soldati non potranno più combattere. Perché un gesto pubblico così grossolano deve assoggettare la sensibilità di ognuno a una celebrazione che io giudico volgare nelle intenzioni? Perché è così che io considero il cordoglio generalizzato, imposto da un finto sentire comune che ha il senso di una circolare ministeriale.
Mentre spero inutilmente che i secondi scorrano più del possibile, mi chiedo: come è possibile che siamo diventati così meccanici? Fare o non fare, dispiacersi o ridere come un atto orchestrato. Occorre forse il via ufficiale per dare inizio al pianto? Non è il cordoglio un momento privato, individuale o di un gruppo, ma comunque privato?
E' finito il minuto, riparte il nastro della cassa. E' tutto sparito e la gente riprende a pensare, disinvolta. Esco frastornato dal negozio.
Prima di arrivare a casa passo da una mia parente. La tv è accesa sul funerale degli eroi di stato. Il funzionario del clero pronuncia parole puerili, inutili, orribili. Provo tristezza per le loro famiglie, certamente gli unici a soffrire davvero, e in modo insopportabile. Ma trovo inaccettabile la blanda retorica spalmata dappertutto nelle nostre vite quotidiane. E che siamo spinti ad accettarla, pena forse l'esclusione sociale, è orribile.
Sono morti, purtroppo, sei militari in guerra. Complici, ma anche vittime, in una misura complessa da comprendere. Stanno morendo, ogni giorno, centinaia di civili afghani. Vittime, e in misura minuscola, distribuita, responsabili per non aver constrastato abbastanza decenni di dittatura. Ma pagano un prezzo drammaticamente smisurato per questa responsabilità. E pagheranno le loro generazioni.
Succede anche da noi questo suicidio a rallentatore. A morire il diritto ad assumersi ognuno la propria responsabilità. Così esistiamo in un tempo dove tutto diventa legittimo in nome di cause che non sono nostre e che non abbiamo voluto. Ecco, forse, qualcosa per cui valga la pena organizzare un funerale collettivo.

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